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La parabola dell'esattezza
- racconto breve -
I
passi incerti di Gerri risuonavano nel blu del corridoio. Il silenzio
interrotto dal tintinnio delle flebo e in fondo il sussulto
farraginoso dell’ascensore. Un breve tratto da percorrere
lentamente, strisciando le pantofole con la sicurezza e la dignità
di chi sa come muoversi. Bisognava riscattare quella notte alla noia,
e nessuno avrebbe impedito alla banalità di pagare il suo tributo.
Diede uno sguardo discreto verso l’origine e gli sembrò
preferibile a un passo in avanti verso la fine. Chiamò l’ascensore.
Girò a sinistra e si nascose dietro le ante. Le braccia scattanti lo
avvolsero e lo portarono giù al piano terra, all’uscita, alla
vita.
Lo
stomaco di Gerri borbottava, uscendo dall’ospedale. Erano i lunghi
digiuni sedati dalle soluzioni nutrienti sparate in vena. Si era
liberato dei tubicini delle flebo con la maestria degli infermieri e
aveva asciugato quelle poche gocce di sangue con l’interno della
giacca. Era una notte calda. Fuori un vento leggero portava con sé
l’odore dei pini. Si fece una bella sniffata Gerri, come una volta,
un gesto di quelli che non si scordano più. Attraversò il
marciapiede scansando gli aghi marroni con le suole, e prudente e
veloce come un predatore notturno superò la strada illuminata. Di
nuovo all’ombra degli alberi fiutava la preda, rosso oggetto del
desiderio. La strada illuminata dai neon all’ingresso e lui che la
sentiva guaire nell’ombra.
-Ciao
Gerri, che cazzo ci fai in pantofole?
-Niente,
e che non riuscivo a dormire. – rispose.
-Potevi
almeno cambiarti prima di venire, no?–
-Finiscila,
Giuse’! Non è che avresti una sigaretta piuttosto? – ribatte un
po’ stizzito.
-Certo,
te ne do anche due, però l’altra non te la portare all’ospedale,
sennò è contrabbando, eh!
-Eh,
grazie –rispose- e poi mi chiedi perché vengo qui. – Sorrise e
con le sue impronte scivolose lasciava segni sulla moquette. Sentiva
che lei era lì, rossa e disponibile, come la prima volta.
-Gerri!
-Ciao
– rispose al gestore e a due clienti indefiniti che fumavano in
fondo al bancone. Circondati da specchi e bottiglie di whisky e di
gin. Sembravano anche loro dei fuggitivi e ricambiarono a gesti.
-Si
è visto qualcuno stasera? – esordì Gerri.
-Nessuno
dei tuoi, per adesso. Comunque lo sai che non ti conviene farti
vedere in giro così spesso.
-Si,
lo so – rispose.
-Sai
com’è – aggiunse l’altro.
Cambiò
cinquanta euro in monete da uno e calcolò che in condizioni normali
gli sarebbero bastati per un’ora circa. E comunque bisognava
tornare presto. Ai tempi d’oro di Gerri le bambole russe lo
aspettavano fuori, restavano in macchina mentre lui entrava all’All
Inn
“a fare un giro di slot e vodka prima d’ingranare la serata”.
Oggi cambiava il suo biglietto al bancone e rimaneva a fissare i
gesti del cassiere che impilava le monetine. La barba gli dava
un’immagine ruvida e nostalgica. Dieci colonne da cinque, questo la
macchinetta non lo fa. E’ la semplicità del gesto ripetuto che
dona leggerezza all’atto di cortesia, e ora le mani del cassiere
gli donavano più di una chance.
Gli stavano offrendo una strategia: una colonna per scaldare le dita,
due per alzare la posta, sei per giocarsela e una per i saluti.
Grazie
– disse con voce sincera. Poi con un sorriso lieve si diresse verso
di lei e Cherry
Lady
rispose col suo sorriso migliore. Tre jack incastonati al primo
tocco. Non male per un pretendente in quelle condizioni. Scrollò le
spalle e continuò a giocare.
Erano
passate già due settimane dalla prima fuga e ormai si sentiva sicuro
di non essere scoperto. Da parte sua non aveva mai forzato la mano
alla fortuna. Cercava l’equilibrio in ogni cosa e era attento ad
imparare le logiche del gioco. Le simpatie tra gli infermieri,
l’arroganza del primario, lo sconforto dei pazienti e l’avvenenza
delle loro compagne. Ricoverarsi per il trapianto era già servito a
qualcosa: aveva imparato a dormire di notte, a spendere meno di
cinquanta euro al giorno, a chiudere una flebo e a non allontanarsi
per più di un’ora. Dalle 2:00 alle 3.00 appunto. Oggi era ancora
più tranquillo del solito. Sembrava uno straniero venuto per affari
che si stava concedendo un attimo per sé.
I
due tizi al bancone si erano alzati lasciando gli euro del conto come
sottobicchieri. Lo avevano guardato e se n’erano andati senza
salutare. La foschia della pioggia pomeridiana, intanto, saliva dal
basso verso l’insegna dell’All Inn.
Le
mani scorrevano sulla bottoniera lucida. Cambiava la puntata ogni
quattro giri e poi ritornava sul doppio della posta iniziale. Così
facendo si era portato in vantaggio sulle colonnine per la prima
mezz’ora, ma adesso stava perdendo terreno. Inesorabilmente
coerente con il volere del caso, aveva smesso di pensare alle
combinazioni; e al cinismo iniziale si stava sostituendo una dolce
rassegnazione.
“Se
è così che deve andare…” pensava, e intanto non smetteva di
godere della frescura delle monete sui polpastrelli. Aveva impilato
le ultime 2 colonnine sul bordo alto della macchinetta. Azzardava uno
sguardo di tanto in tanto, solo per essere sicuro che le ultime
speranze fossero ancora lì dove le aveva lasciate.
Passarono
altri venti minuti.
-Due
Kappa e tre Donne – un punto bellissimo, e l’indicatore dei
crediti di colpo si moltiplicò per nove.
La
dolce Cherry
e le donnine sorridevano. Era un amore sensazionale, tutto il tempo
lì seduto a guardare. Forse una di loro l’avrebbe scelto per
essere accompagnata a casa? La nona sera al casinò e la certezza di
essere ancora vivo.
Aveva
già rischiato di morire qualche mese prima per la diagnosi di una
cellula “certamente” sospetta. Com’era possibile che più di
vent’anni di quella vita gli avessero procurato un tumore al
fegato, se quelle sono cose che capitano ai poveri cristi che lo
passano le serate davanti alla tv. Dean era morto in automobile, De
Gallardon lanciandosi da un aereo e anche lui sapeva che se ne
sarebbe andato così, senza paracadute. La diagnosi poteva essere
inesatta e così il dubbio gli aveva lasciato un certo margine
d’errore. Finché la notte del 2 ottobre fu portato d’urgenza in
ospedale a Campione d’Italia, poi il trasferimento in Calabria. Ora
vagheggiava di infermiere impertinenti che l’avrebbero accompagnato
in baita sulla Sila. Per una vita fatta di minestre calde e boschi,
il cognac solo al sabato con gli amici del circolo.
“Bling”
il rumore alle sue spalle lo fece sussultare. Era Mario che
trafficava con i bicchieri sporchi dietro il bancone e ne aveva
appena rotto uno. Sorrise.
-Ehi,
se proprio devi romperli, portamene uno! – gli disse, pur sapendo
che poteva essergli fatale. Non aveva molto fegato, Gerri, ma era
indiscutibilmente un uomo di polso.
Cinque
Sette, infatti, si allinearono uno dietro l’altro davanti ai suoi
occhi increduli. Il Jackpot – si domandava, e le pupille pulsavano.
Il luccichio dello schermo davanti lo illuminava di una luce rossa e
gli donava una cera eccentrica. Mario si sollevò sul bancone coi
gomiti grossi e le mani tese in avanti.
-Cristo!
– gli gridò- e’ il Jackpot Nazionale Ge’?!
Gerri
non sentiva nulla oltre il motivetto ridondante della macchinetta. Lo
schermo si tinse di blu e una pioggia di stelle dorate iniziò a
cadergli sulle mani appoggiate alla bottoniera. Il riflesso del suo
stupore attirò le occhiate ammiccanti delle belle ragazze di pixel
che gli sfilavano davanti; mentre sullo schermo ognuna sollevava un
numero. Iniziò la rossa a sinistra con lo zero sulla testa e via via
altri quattro zeri fino al tre iniziale.
-
Minchia – esclamò e con il salto che ne seguì cacciò lo sgabello
lontano, quasi sui piedi di Mario. Adesso gli era già addosso con le
braccia tese di gioia. L'aspetto violento lo faceva sembrare
piuttosto un orso pronto a stritolarlo. Lo prese, la testa calva di
lui strofinò sulle guance umide e i capelli lucidi di Gerri e lo
sollevò per aria. L’urlo che cacciarono all’unisono scosse anche
i bicchieri. Gli accessori sul bancone per un’improvvisa corrente
d’aria si sparpagliarono per terra, cadevano lucenti e la moquette
ne attutiva il rumore. Parevano stelle, finalmente mobili.
L’abbraccio
e l’emozione, ora, lasciavano un po’ di respiro ai due, e le
risate si spegnevano pian piano nei singhiozzi.
-Auguri,
Ge’, sono proprio 30! – disse Mario.
-Dovrò
portarli dentro in un sacco – rispose – ma li avrai tutti quei
soldi in cassa?
Mario
lo squadrò dall’alto in basso e con fare risoluto rispose.
-In
cassa no di certo.
Quindi
l’abbracciò e lo condusse verso il bancone. Scansarono entrambi
con un calcio le stelle ossidate sul pavimento e entrarono nel
retrobottega. Mario gli offrì diciottomila euro in contanti –
tasse incluse - con la promessa di dire a tutti che era stato lui
stesso a vincere. Gerri, per quietanza, gli offrì la mano destra e
il più bel sorriso che aveva in serbo da due settimane. Spinse i
soldi in fondo alle tasche della giacca e s’infilò alcune
banconote nella molla dei pantaloni. Indossava ancora il pigiama e le
pantofole, così, in modo discreto s’infilò nella stradina del
ritorno. Camminava, mentre il letto d’ospedale, le flebo e il
dubbio sul tumore gli confondevano la mente. La medicina non è una
scienza esatta, pensò. Se il caso è un adorabile infedele, che sia
il denaro la sua amante preferita?
Il
mattino seguente un vento freddo sulla nuca lo sorprese nel sonno.
Stiracchiò qualche sillaba e poi vide l’ombra bianca
dell’infermiera contro la finestra.
-E’
ora di alzarsi, Giobetti. Su’ che sono quasi le otto.
Rispose
con un rantolo. Mentre schiudeva gli occhi, però, le mani correvano
sotto il lenzuolo a cercare il bottino. Sentì la carta, e poi uno
scroscio di felicita gli illumino il viso.
-Signorina
– disse- ero un po’ stonato dalla notte scorsa.
-Avrà
mica vomitato ? – lo apostrofò lei premurosa e un pochino
preoccupata.
-No,
ma , sa com’e’…
-E’
nervoso per l’operazione, la capisco, sa! – l’interruppe lei.
-Eh
gia’ – rispose – visto che mi sono perso la colazione, le va di
portarmi un caffe? – e lei incerta
– Non
si potrebbe ma…
-Grazie
– disse e provò a infilarle qualcosa in tasca. L’infermiera
interruppe il suo gesto e esitando con la mano gli chiese il perché.
Gerri strizzò l’occhio, le sorrise e disse
– Giocali,
perchè magari un giorno… te ne andrai anche tu di qua.-
Lei
all’inizio non capì, poi si voltò delusa, e liberandosi si
diresse verso le scale.